Le monde ou rien.
Frammenti di inchiesta nella Bolognina meticcia.
Federico Antibo
Nelle TN un tocco
Giro per tutto il blocco
Col completo tarocco
Faccia made in Marocco
Baby Gang

Da almeno un paio d’anni a questa parte, nel vortice dell’indignazione mediatica e degli spauracchi da salotto buono, si è fatta spazio, a suon di martellamento, la categoria di un nuovo soggetto sociologico: il “maranza”. Per televisioni e giornali, da quelli locali alle reti nazionali, è in atto un vero e proprio assalto, arrembaggio, un’invasione barbarica di queste orde di delinquenti ai danni delle nostre città. In termini puramente semiotici, siamo davanti alla costruzione fenomenologica di un nemico chiaro e in grado di creare identità oppositiva, siamo davanti alla costruzione di quello che Reinhart Koselleck chiamerebbe concetto asimmetrico antitetico con cui imporre nel sociale la dicotomia amico-nemico, un “noi” capace di esistere soltanto a partire dall’individuazione di un “fuori di noi” da combattere, da negare. Nulla di nuovo insomma, ed effettivamente, a guardarla bene, la categoria di “maranza” non sembra che un rispolvero in grande stile della più comune figura del teppista, elevato in termini di pericolosità da una sua connotazione prettamente razziale. Marocco, Libano, Siria, ma anche Serbia, Romania, Albania: ad oggi non vengono fornite indicazioni geografiche precise alla guida di torce e forconi, è sufficiente abbozzare una sagoma fatta di tute acetate, di stile eretto quasi a tratto somatico.
Con questo primo stralcio di inchiesta non ci si vuole porre l’obiettivo metodologico di riempire tale sagoma; semmai proprio l’opposto, tentare di allargarne i bordi. Alle nostre latitudini, la polarizzazione “elleno-barbaro” ha sicuramente avuto un suo climax intorno alla vicenda di Ramy Elgaml, diciannovenne che lo scorso novembre ha perso la vita durante l’inseguimento con una volante dei carabinieri, e soprattutto intorno alle proteste scoppiate a seguito della diffusione di un video in cui emergeva, limpida e becera, l’intenzionalità nello speronamento del motorino del giovane. Fior fior di trattati, di articoli scandalistici, di sproloqui si sono susseguiti da quel momento in poi per condannare in contumacia o per elargire pietismo, o ancora per esaltare l’avvento di questo meta-soggetto politico e autoeleggersi portavoce di non si sa bene quale comunità.
Qui sotto non si troverà nulla di tutto questo. L’inchiesta proposta non si arroga in alcun modo il diritto di “parlare per”, né le è proprio un carattere apologetico o idolatrante, tutt’altro: de-universalizzare la figura del “maranza”, provando a mettere al centro sogni e contraddizioni di persone concrete, piuttosto che cliché di personaggi romanzati. A tale scopo, serve innanzitutto specificare il campo di ricerca, particolare e non assoluto, prima di lasciare spazio alle testimonianze raccolte.
Contesto
Aggrappato con solo due ponti ai fitti porticati e ai colori pastello del centro-storico felsineo, si sviluppa alle spalle della Stazione Centrale il quartiere della Bolognina. Un’area operaia nata in seguito al piano regolatore del 1889, appena fuori dalle vecchie mura della cittadella bassomedievale ma abbastanza scissa dagli sfarzi di via Farini per rappresentare un mondo a margine: la linea ferroviaria taglia, infatti, ogni pretesa di continuità territoriale e sociale tra le due zone, imponendo inevitabilmente un davanti e un dietro con cui fare i conti. La maggior parte dei palazzi che la compongono portano ancora i segni del loro passato, strutturati in tre o quattro piani, con facciate semplici e funzionali, in una disposizione a blocchi quadrangolari. Non basterebbe qualche paginetta per descrivere i complessi fenomeni che, in più di un secolo dalla sua costruzione, hanno attraversato e stanno attraversando questa parte di Bologna Nord – e la città tutta – nell’ambiguità sempre presente di violenza e innovazione, limiti e possibilità, che tali processi portano con loro.
La Bolognina del 2025 è certamente un territorio ibrido, costituito innanzitutto da una ricca e fitta pluralità di culture, storie, lingue, nazionalità, usanze, redditi, problemi, bisogni, desideri. Da un lato notiamo come sempre più attori finanziari decidano di spostare ingenti capitali proprio verso zone del genere, dall’altro basta una passeggiata pomeridiana per rendersi conto di quanto quella ricchezza non sia minimamente proporzionale al grado di benessere sociale che (non) si respira tra le vie del quartiere: per ogni studentato di lusso di 15 piani fiorito nel giro di pochi mesi, si dispiega una selva arida e feroce, composta da centinaia di famiglie sotto sfratto o senza casa, dall’assenza completa di servizi e di possibilità di reddito, da una asfissiante epidemia di crack.
Ne I dannati della terra Frantz Fanon scriveva: «Il mondo coloniale è un mondo a scomparti». Oggi non è più rimandabile approfondire il grado di razzismo strutturale che le nostre città hanno raggiunto, dobbiamo iniziare a cartografare il complesso design coloniale che gli scompartimenti del mobilio metropolitano impongono sulla riproduzione della città stessa e dei suoi quartieri. Non solo la partizione orizzontale-spaziale classicamente intesa nel rapporto urbanistico tra centro e ghetti – che pur esiste, si pensi alla recente istituzione delle “zone rosse” –, ma un livello inedito di confine verticale-temporale: le stesse strade che di giorno sono crocevia di turisti, tappeto di tavolini da aperitivo, divengono al calar del sole dormitori a cielo aperto pour les misérables, in cui decidere se morire di freddo o tra la nube di fumi delle stagnole ardenti. Esiste un sottosopra, un mondo parallelo alla Stranger Things, diviso ma univoco, che emerge e scompare in uno iato composto di violenza.
Tanta è l’efferatezza della marginalizzazione, altrettanta è la rabbia di chi ha fame di esistere. La – così definita – Battaglia di piazza San Francesco per Ramy, le manifestazioni oceaniche e determinate per la Palestina, le occupazioni di scuola proclamate esplicitamente sull’insopportabilità di quell’istituzione oppressiva e normativa, la forte ondata di lotte per la casa e le mobilitazioni dentro i magazzini della logistica… sono tutti eventi che parlano (anche) della necessità di affermazione, di protagonismo – politico e prepolitico – esplicitata da soggetti con background migratori: in una molteplicità non riducibile a Uno, ciò che li accomuna è la medesima sospensione tra le maglie del razzismo istituzionale. È in questo contesto che negli scorsi mesi ha preso vita un’inchiesta composta da diverse interviste, collettive e individuali, delle quali di seguito sono riportati alcuni frammenti. Fuori dalle squallide inquadrature da safari televisivo, i e le “regaz” delle corti popolari della Bolognina, giovani e giovanissime, ci raccontano di gabbie da spezzare e sogni da conquistare, puntando alle stelle.

© Le Dictionnaire De L'Emo

Frammento I
E niente, io mi sento figlio di una generazione che era obbligata ad avere vergogna della sua storia, della sua lingua. A scuola ci chiedevano se parlavamo italiano in casa, ci insegnavano che portare avanti le nostre culture e la nostra religione non andava bene, perché qua dovevo integrarmi e prendere nuove tradizioni. Dovevamo avere vergogna di noi.
I nostri genitori hanno sempre cercato di tenere un basso profilo e di stare in silenzio, io vedevo la vergogna negli occhi dei miei genitori che tornavano a casa stanchi dopo tantissime ore di lavoro sottopagate, anche senza contratto, e provavano a dedicarti quel poco di tempo che avevano, con i vestiti ancora sporchi. Non bastava mai il lavoro che facevano. Quindi, a una certa dopo anni che li vedi così ti chiedi perché, se tutti hanno qualcosa, allora io non posso averla... e te la prendi praticamente, se non te la danno. Quindi per esempio se oggi abbiamo frivolezze, cose di cui tutti possiamo fare a meno, tipo andare in discoteca ogni fine settimana o fare aperitivo con gli amici, è per questo. Ti chiedi perché se tutti possono farlo, tutti vanno a sciare, vanno in montagna, perché noi non possiamo andarci, non possiamo fare niente di tutta questa attività. Che colpe abbiamo?
E quindi inizi a prendere anche tu queste cose, quello che riesci, come abbiamo visto anche nella musica emergente di adesso. Tipo tutti che ascoltiamo Baby Gang, Neima e Simba La Rue: non è semplicemente per celebrare l'individuo in sé, anzi… ma perché è la prima volta che qualcuno racconta le nostre realtà per quelle che sono, senza romanticizzarle e senza esagerarle, perché è davvero quello che viviamo, è davvero la merda che viviamo. Volevo dire che dopo tutti gli anni in cui cercavamo di integrarci e di tenere un basso profilo, adesso abbiamo capito che non serve. Dopo anni in cui ci siamo vergognati di portare i vestiti di seconda mano, di non comprare le scarpe di marca eccetera… è per questo che abbiamo bisogno di comprare la tv a 50 pollici e le scarpe di marca, così da sentirci un po' che anche noi possiamo prenderci quello che vogliamo. Allo stesso tempo abbiamo iniziato a costruire delle reti sociali, per esempio quando il Marocco ha vinto il mondiale e siamo scese in piazza, o per l'indipendenza della Bahia. Sono pochi i momenti in cui si può ancora rivivere le nostre culture e le nostre usanze, anche quando siamo lontani dai familiari e dai nostri territori.
In questi pochi momenti noi riusciamo a trovare il bello nella miseria, con la famiglia, nelle spiagge libere, nei parchi. È una cosa molto importante per noi. La gente pensa un po' di poter parlare al posto nostro e di capire le situazioni in cui viviamo, ma nessuno ci dà la parola. Noi abbiamo deciso che non ci stiamo più, perché noi sappiamo come stiamo, sappiamo quali sono le nostre origini, quello che viviamo ogni giorno sulla nostra pelle e quindi vogliamo auto-raccontarci. Per esempio tutti vogliono sempre categorizzarci fra “maranza” buoni e cattivi, stranieri integrati e criminali. Noi sappiamo che siamo tutti figli delle stesse situazioni che ci portano alla strada, perché nessuno sceglierebbe di spacciare al posto di uscire con gli amici.
Ah devo aggiungere una cosa riguardo gli artisti di seconda generazione. Sono stati una manna dal cielo, letteralmente, perché prima non eravamo rappresentati. Io ascolto molto il pop e mi ricordo che quando ero ai tempi del liceo, avevo 14-15 anni, stavano uscendo Ghali, Maruego… Sono stati un po' i precursori dell'attuale scuola di seconda generazione. Però effettivamente, ad aver abbattuto quel muro del pregiudizio, sono stati ragazzi come Baby Gang, Simba, tutto il collettivo di San Siro. Sono stati fondamentali perché hanno messo in luce una realtà che era nascosta o che si cercava di nascondere, di mettere la polvere sotto il tappeto e nascondere. Sono stati fondamentali. In realtà in altri paesi come la Francia, il Regno Unito, in Germania, rapper di seconda, addirittura terza e quarta generazione lì è una normalità. Anzi, sono più i rapper di origine straniera che, per esempio in Francia, quelli francesi francesi. Fondamentale è stato l'apporto di questi ragazzi che però vengono criminalizzati, che hanno fatto le loro cose, hanno scontato, eppure sono ancora perseguitati. Con la sola colpa, che magari fomentano le periferie, quando in realtà non è vero, loro denunciano determinate realtà. Molto semplicemente. Ma anche prendendo in esempio una barra che diceva Baby Gang nel pezzo Alcott Zara Bershka, diceva: «eravamo tutti poveri ma ben vestiti, eravamo vestiti bene dalla testa ai piedi e a me non stava bene che io non avevo e tu avevi».
Frammento II
Volevo dire che siamo tutti incazzati per la situazione di Ramy. Volevo dire che non c'è odio solo da ragazzi immigrati, magari ragazzi di seconda generazione, ma anche dai quartieri perché non è normale che un ragazzo che gira in scooter, va bene, non c’avrà la patente - ma saranno pur sempre i cazzi suoi – venga ammazzato così. Nulla vale più di una vita. Lo Stato continua sempre a cacciarci, parla di cazzate, fa parlare dei razzisti di merda, perché non capiranno mai che significa essere fermato solo per il tuo colore della pelle, per come ti vesti, per come ti poni, per come sei. E lo vivo io in primis anche perché quando mi fermano, anche a me la prima cosa che chiedono è il permesso di soggiorno: e se non ce l'hai addosso, ti rompono il cazzo, perché dicono “ah, però dovresti averlo sempre appresso”, tu dici “no, io ho paura di perderlo, poi chi è che me lo ripaga?”. Perché il permesso di soggiorno costa anche e devi aspettare molto per richiederlo perché tanto la Questura ha i suoi tempi e di te se ne sbattono il cazzo.
Io me lo son vissuto un episodio di razzismo quando lavoravo con una azienda che installava condizionatori: eravamo a casa di ‘sta signora, della signora Maria, e il collega mi dice “dai zingaraccio, muoviti da davanti alla signora Maria”. E tu cosa fai? Stai zitto, perché sei in uno stage di scuola-lavoro, tanto non vieni pagato, se ti fai male sono i cazzi tuoi… come i tanti morti, cioè, come i tanti studenti morti nel PCTO, lo dimostrano. Ricordiamolo.
Volevo parlare dell'amministrazione delle scuole: noi arriviamo sempre guardati male, messi lì all'angolo. Cioè, siamo ragazzi che arrivano da contesti sociali in cui veniamo ghettizzati di continuo, non cercano mai di integrarci, veniamo sempre messi da parte. Ci dicono “lì gioca con…”, “stai con gli altri”, “vai lì”, cioè, come se noi non fossimo uguali agli altri. Quando sei un ragazzo di “seconda generazione”, quindi sai cosa prova un tuo compagno, anche se ha la pelle diversa dalla tua, e stai lì con lui a giocare, fino a quando gli dicono “no, ma non stare con lui, che è nero, che puzza”. E quando gli dici che hai un cognome diverso da loro, non italiano, e ti iniziano a dire “ah, ma anche tu sei come loro, che non vali niente”.
Lo vediamo quando ci ferma la polizia, che leggono il nostro cognome, dicono “ah, ma ti comporti bene tu, eh, si vede che ti hanno educato bene”, come se fossimo dei cani da tenere al guinzaglio e da essere addestrati. Lo vediamo quando andiamo a fare la spesa, che non riusciamo a permetterci le cose di marca, e mangiamo con le cose da Caritas. Ci dobbiamo vergognare di quello che mangiamo, ma anche dei vestiti che portiamo, che sono sempre di seconda mano, condivisi tra fratelli, perché la nostra unione ci manda avanti e ci rende sempre più forti, perché non abbiamo bisogno di voi: ciò che facciamo lo facciamo per noi, con noi e tra di noi, e punteremo sempre più in alto, punteremo alle stelle e ci prenderemo tutto.
Frammento III
La gente vede in noi persone soltanto da schedare, da cacciare, da definire, come dire, cittadini di serie B, ecco, quasi. Quindi non fa altro che fermarci, controllarci e vedere anche se siamo in regola e addirittura scandalizzarsi se siamo in regola o se addirittura possediamo la cittadinanza italiana. La polizia intendo. Quindi alla fine noi siamo orgogliosi di essere figli di immigrati, di avere una provenienza multietnica. Siamo stanchi oltretutto di essere rappresentati da persone, da classi politiche che ci spiegano come noi dovremmo comportarci e di come dovremmo integrarci, anche se onestamente io non sopporto questa parola, come se dovessimo essere lì e accettare i loro dettami all'interno di una società che addirittura ci distanzia. E quindi siamo stanchi di stare in silenzio. Come direbbero i PNL, il duo rap francese di origine algerina, loro volevano «il mondo o niente, il mondo o niente». E quindi noi siamo qui per restare.
Ovvio l'Italia come anche paesi come la Spagna, ha un'immigrazione giovane rispetto alla Francia o alla Germania, al Regno Unito, all'Olanda, complice anche il fatto delle colonizzazioni più forti rispetto a quella italiana. Eppure nonostante ciò esistono realtà così ed era impossibile ignorarle. Inoltre negli ultimi due o tre anni per catalogare queste persone si utilizza il termine “maranza”, un termine a mio parere dispregiativo, perché non si fa altro che catalogare una persona che notoriamente presenta dei connotati tipici magrebini. Ma il termine “maranza” nasce in realtà come termine nel milanese come gergo per definire un po' il tamarro di zona e adesso viene trasfigurato al magrebino, che magari si trova in una situazione comunque disagiata date determinate situazioni come possono essere anche dal punto di vista burocratico di documenti se non si possiede la cittadinanza italiana, quindi permesso di soggiorno… Tutti gli sbatti del permesso di soggiorno portano magari la persona a buttarsi a lavori che per lo più sono sottopagati o nel peggiore dei casi, per saltare questa situazione e arrivare al guadagno facile, lavori dal guadagno illecito. Per la cittadinanza ci vogliono i soldi. Mi è capitato un'estate di incontrare un ragazzo americano che era venuto qua a fare una scuola, non so di che cavolo e non mi interessa nemmeno… L'avevo incontrato così una serata e questo tipo mi ha detto, guardandomi in faccia, che lui ce l’aveva “perché il mio babbo si è attivato e c'aveva un nonno nostro che era italiano”. E questo qua era venuto con la cittadinanza italiana, con il passaporto italiano, e li agitava davanti a me. Mi sono sentita incazzata.
È schifoso, però fa riflettere. Il termine “maranza”, comunque, è presente in altre terminologie. In Francia abbiamo “racaille”, che sono principalmente anche lì magrebini che come qua si vestono in tuta eccetera e quindi si notano facilmente e quindi sono facili da fermare, controllarli solo per il fatto che hanno questi connotati. In Germania abbiamo “kanak” riferito alla generazione turca presenti lì ormai da generazioni in cui trisavoli erano andati lì come forza lavoro in Germania; e in Spagna “moro”, dispregiativo per definire anche lì magrebini, gli spagnoli di origine magrebina… I “maranza” in realtà sono il sintomo di un malessere più profondo che è radicato nella marginalizzazione sociale ed economica, e molti di questi giovani crescono in contesti comunque disagiati segnati dalla povertà, dalla mancanza di prospettive.
Post Scriptum
Come già indicato, la breve – e prima – inchiesta appena terminata non è da intendere in quanto storyboard di un personaggio piatto e caricaturale, ma tenta di mettersi a servizio di una necessità politica: approfondire lo spazio-tempo coloniale delle nostre metropoli in divenire, per sovvertirlo. Un lavoro certamente lungo e complesso, da portare avanti in forma collettiva, e che solo a partire dalla specificità dei singoli territori può sperare di toccare con mano la complessità multidimensionale di questa congiuntura, invece che rimanere imprigionato tra le nubi plumbee dei luoghi comuni. Sovvertire la città del dominio e dello sfruttamento – nella quale la colonialità è una tra le molteplici linee che tracciano confini - per lasciare spazio ad un ecosistema meticcio, agli intrecci eterogenei di vite, storie e sogni differenti, capaci di spezzare i bordi della norma. Il termine meticcio può oggi aiutarci a indicare la ricchezza di tale orizzonte, senza ridurre i livelli di complessità in gioco? In via del tutto provvisoria e al netto dei possibili limiti, durante i dialoghi alla base di questa ricerca è apparso come l’attributo più capace, quantomeno, a suggerire uno sforzo immaginativo.
Un’inchiesta da portare avanti domandandosi insieme a Gayatri Spivak «Can the subaltern speak?», consapevoli del fatto che il proprio lavoro potrà essere, nel migliore dei casi, una buona approssimazione.

© Foto di Eva Laudace